Cara Claudia, la prima cosa che le
chiedo è: in cosa consiste il suo lavoro, esattamente?
Mi occupo in generale di antropologia
sotto diversi aspetti, specialmente connessi all'interculturalità.
Ho fatto ricerca e lavorato con l'America Latina - Messico, Brasile,
Cile e Perù.
Attualmente scrivo e porto avanti
progetti di cooperazione allo sviluppo con il finanziamento di alcuni
enti. Uno, per esempio, è sulla potabilizzazione dell'acqua di falda
in una comunità della Costa del Golfo.
Fino ad un paio d'anni fa, invece, ho
coordinato dall'Italia un progetto sulla tessitura con l'area di
Ancash, Huari e abbiamo creato delle cooperative femminili per la
filatura, colorazione, tessitura e vendita di manufatti.
Sul territorio italiano, intanto,
lavoro in progetti specialmente rivolti all'inserimento delle seconde
generazioni.
Ci parli un po' del Centro Studi
Americanistici "Circolo Amerindiano" Onlus: com'è nato?
Quali obiettivi si pone? Quali attività svolge?
Questa domanda è veramente tanto
ampia, per una associazione – onlus con personalità giuridica –
nata nel 1977. Si possono trovare tutte le informazioni sul sito
ufficiale:
CIRCOLO AMERINDIANO ONLUS
Ha un ricordo particolarmente bello
legato alla sua attività?
Ho molti ricordi positivi e
gratificanti! Uno è sicuramente il successo del progetto di
cooperazione con il Cile, in particolare con l'area mapuche, per il
riscatto almeno dell'uso delle terre indigene. Il quadro, al nostro
arrivo, si è mostrato particolarmente ostile per la sfiducia che la
popolazione ha verso le istituzioni. Gradualmente abbiamo mostrato di
essere diversi da tanti altri cooperanti e, con esami morali e
deontologici praticamente continui, siamo riusciti ad ottenere
obiettivi superiori alle aspettative.
Un momento fondante è stato anche
l'incontro con Taty Almeida, una Madre de Plaza de Mayo della Linea
Fundadora, che sono riuscita a portare a Perugia (grazie alla
collaborazione con Asal) per la presentazione della traduzione in
italiano del libro di poesie del figlio, Alejandro, desaparecido
durante la dittatura argentina.
Momenti molto gratificanti sono anche
quelli formativi con le scuole, sul territorio umbro, perché la
realtà è sempre più multiculturale, ma con tentativi di mimetismo
da parte degli stranieri e di cancellazione della propria identità
familiare. La visita alla collezione etnografica del Centro Studi
Americanistici con l'attività di guida, che mi permette di collocare
la loro storia in una storia più ampia di interazioni e contatti
continui, è un momento forte di riscatto della propria
biculturalità, dell'appartenenza a due mondi che possono far
dialogare, reinventare.
E uno particolarmente brutto?
Più che brutto direi umanamente
coinvolgente: è il processo ancora in fieri di collaborare con una
riserva indigena del Brasile ad alto tasso di suicidio giovanile. È
una realtà schiacciata dal latifondo e dalle multinazionali, ma
anche da un razzismo profondo verso le popolazioni originarie.
Ragazzi spesso poco più che bambini non vedono altra strada che
quella della morte, come unica liberazione da una realtà di povertà
estrema, di violenza, di guadagno solo con la prostituzione, il
trasporto di droga o il pesante lavoro nella canna da zucchero.
Abbiamo cercato insieme a loro dei
percorsi di autoaffermazione, di dichiarazione identitaria e stiamo
cercando i mezzi ed i modi per percorrerli.
Com'è nato il suo amore per
l'America Latina?
Durante l'università, direi, grazie al
primo esame di Antropologia culturale con il prof. Seppilli. Durante
quel corso ho deciso di riorientare il mio piano di studi, che era
d'impronta medievistica, sulla contemporaneità e sullo studio delle
culture. Il secondo esame è stato quindi sulla Mesoamerica, con il
prof. Santoni, e da lì ha preso avvio il mio studio del Messico, dei
Maya, dell'America Latina. Però, riflettendoci, mi rendo conto che
questi "semi" sono caduti sulla terra già fertile dei
molti viaggi che mi ha permesso di fare la mia famiglia, nonché del
rapporto quotidiano, sin dall'infanzia, con una tata analfabeta,
amorevole e esperta nella gestione domestica della malattia, che era
stata costretta a lavorare dai 5 anni. Parlo spesso di lei con le
donne analfabete dei villaggi e mi sono convinta, gradualmente, che
da questa strana figura scaturisce il mio trasporto conoscitivo per
l'antropologia.
Inoltre, sempre per restare nel campo
familiare, la scelta di dedicarmi – quando posso, per finanziamenti
disponibili – all'antropologia medica, in cui sono dottorata, credo
proprio che venga dai confronti con mio padre, primario oncologo che
ha sempre tenuto a mente le basi ontologiche della medicina "bianca",
ponendo l'uomo, la persona al centro del processo di salute-malattia
e focalizzandosi sulla prevenzione e sulla partecipazione del
paziente alla cura.
L'immigrazione. Lei come la vede?
L'immigrazione è un dato di fatto.
Ogni altra valutazione non può e non deve che discendere da questa
oggettività. Perché una volta fissato questo punto tutto il resto
diventa operativo e non strumentale, come spesso si fa.
Oggi l'immigrazione in Italia sta
rallentando per la crisi finanziaria, che tocca prima di tutto le
fasce meno tutelate della società. Ma rimane comunque un fenomeno
strutturale della nostra società.
Ed è importante che vada declinato
nelle sue specificità, rendendo nota, per esempio, la sanzione che
ha l'Italia per la pratica aberrante dei reimpatri e inoltre per
tutta la cattiva gestione dei richiedenti asilo.
Che cosa le ha insegnato la sua
attività?
Che oggi c'è un tentativo sottile e
capillare di anesterizzare il cervello delle persone, di dare loro
risposte perché non si pongano più le domande e non ragionino sulle
informazioni. È imprescindibile fare formazione critica, dare gli
strumenti per la riflessione, per l'analisi della realtà,
televisiva, contestuale... Dobbiamo ricordarci e ricordare che i
mezzi di comunicazione sono Mezzi, non fini e non la realtà. Questo
è basilare nella costruzione di una società interculturale
dignitosa e rispettosa, di una identità singola consapevole, di una
storia che non rimuova gli elementi scomodi.
Che cosa si sente di dire ai tanti
migranti (peruviani e non) che leggono questa intervista?
Che l'Italia è sempre stato un Paese di trasformazioni culturali; abbiamo riconosciuto nella Costituzione le minoranze linguistiche dal nord al sud. Se trovano un muro nella convivenza sappiano attingere alla storia dell'Italia per ricordare a questo strano popolo quanto migliore può essere!
Che l'Italia è sempre stato un Paese di trasformazioni culturali; abbiamo riconosciuto nella Costituzione le minoranze linguistiche dal nord al sud. Se trovano un muro nella convivenza sappiano attingere alla storia dell'Italia per ricordare a questo strano popolo quanto migliore può essere!
F.V.
Nessun commento:
Posta un commento