sabato 8 giugno 2013

Intervista a Claudia Avitabile, antropologa

Cara Claudia, la prima cosa che le chiedo è: in cosa consiste il suo lavoro, esattamente?
Mi occupo in generale di antropologia sotto diversi aspetti, specialmente connessi all'interculturalità. Ho fatto ricerca e lavorato con l'America Latina - Messico, Brasile, Cile e Perù.
Attualmente scrivo e porto avanti progetti di cooperazione allo sviluppo con il finanziamento di alcuni enti. Uno, per esempio, è sulla potabilizzazione dell'acqua di falda in una comunità della Costa del Golfo.
Fino ad un paio d'anni fa, invece, ho coordinato dall'Italia un progetto sulla tessitura con l'area di Ancash, Huari e abbiamo creato delle cooperative femminili per la filatura, colorazione, tessitura e vendita di manufatti.
Sul territorio italiano, intanto, lavoro in progetti specialmente rivolti all'inserimento delle seconde generazioni.

Ci parli un po' del Centro Studi Americanistici "Circolo Amerindiano" Onlus: com'è nato? Quali obiettivi si pone? Quali attività svolge?
Questa domanda è veramente tanto ampia, per una associazione – onlus con personalità giuridica – nata nel 1977. Si possono trovare tutte le informazioni sul sito ufficiale:
CIRCOLO AMERINDIANO ONLUS


Ha un ricordo particolarmente bello legato alla sua attività?
Ho molti ricordi positivi e gratificanti! Uno è sicuramente il successo del progetto di cooperazione con il Cile, in particolare con l'area mapuche, per il riscatto almeno dell'uso delle terre indigene. Il quadro, al nostro arrivo, si è mostrato particolarmente ostile per la sfiducia che la popolazione ha verso le istituzioni. Gradualmente abbiamo mostrato di essere diversi da tanti altri cooperanti e, con esami morali e deontologici praticamente continui, siamo riusciti ad ottenere obiettivi superiori alle aspettative.
Un momento fondante è stato anche l'incontro con Taty Almeida, una Madre de Plaza de Mayo della Linea Fundadora, che sono riuscita a portare a Perugia (grazie alla collaborazione con Asal) per la presentazione della traduzione in italiano del libro di poesie del figlio, Alejandro, desaparecido durante la dittatura argentina.
Momenti molto gratificanti sono anche quelli formativi con le scuole, sul territorio umbro, perché la realtà è sempre più multiculturale, ma con tentativi di mimetismo da parte degli stranieri e di cancellazione della propria identità familiare. La visita alla collezione etnografica del Centro Studi Americanistici con l'attività di guida, che mi permette di collocare la loro storia in una storia più ampia di interazioni e contatti continui, è un momento forte di riscatto della propria biculturalità, dell'appartenenza a due mondi che possono far dialogare, reinventare.

E uno particolarmente brutto?
Più che brutto direi umanamente coinvolgente: è il processo ancora in fieri di collaborare con una riserva indigena del Brasile ad alto tasso di suicidio giovanile. È una realtà schiacciata dal latifondo e dalle multinazionali, ma anche da un razzismo profondo verso le popolazioni originarie. Ragazzi spesso poco più che bambini non vedono altra strada che quella della morte, come unica liberazione da una realtà di povertà estrema, di violenza, di guadagno solo con la prostituzione, il trasporto di droga o il pesante lavoro nella canna da zucchero.
Abbiamo cercato insieme a loro dei percorsi di autoaffermazione, di dichiarazione identitaria e stiamo cercando i mezzi ed i modi per percorrerli.

Com'è nato il suo amore per l'America Latina?
Durante l'università, direi, grazie al primo esame di Antropologia culturale con il prof. Seppilli. Durante quel corso ho deciso di riorientare il mio piano di studi, che era d'impronta medievistica, sulla contemporaneità e sullo studio delle culture. Il secondo esame è stato quindi sulla Mesoamerica, con il prof. Santoni, e da lì ha preso avvio il mio studio del Messico, dei Maya, dell'America Latina. Però, riflettendoci, mi rendo conto che questi "semi" sono caduti sulla terra già fertile dei molti viaggi che mi ha permesso di fare la mia famiglia, nonché del rapporto quotidiano, sin dall'infanzia, con una tata analfabeta, amorevole e esperta nella gestione domestica della malattia, che era stata costretta a lavorare dai 5 anni. Parlo spesso di lei con le donne analfabete dei villaggi e mi sono convinta, gradualmente, che da questa strana figura scaturisce il mio trasporto conoscitivo per l'antropologia.
Inoltre, sempre per restare nel campo familiare, la scelta di dedicarmi – quando posso, per finanziamenti disponibili – all'antropologia medica, in cui sono dottorata, credo proprio che venga dai confronti con mio padre, primario oncologo che ha sempre tenuto a mente le basi ontologiche della medicina "bianca", ponendo l'uomo, la persona al centro del processo di salute-malattia e focalizzandosi sulla prevenzione e sulla partecipazione del paziente alla cura.

L'immigrazione. Lei come la vede?
L'immigrazione è un dato di fatto. Ogni altra valutazione non può e non deve che discendere da questa oggettività. Perché una volta fissato questo punto tutto il resto diventa operativo e non strumentale, come spesso si fa.
Oggi l'immigrazione in Italia sta rallentando per la crisi finanziaria, che tocca prima di tutto le fasce meno tutelate della società. Ma rimane comunque un fenomeno strutturale della nostra società.
Ed è importante che vada declinato nelle sue specificità, rendendo nota, per esempio, la sanzione che ha l'Italia per la pratica aberrante dei reimpatri e inoltre per tutta la cattiva gestione dei richiedenti asilo.

Che cosa le ha insegnato la sua attività?
Che oggi c'è un tentativo sottile e capillare di anesterizzare il cervello delle persone, di dare loro risposte perché non si pongano più le domande e non ragionino sulle informazioni. È imprescindibile fare formazione critica, dare gli strumenti per la riflessione, per l'analisi della realtà, televisiva, contestuale... Dobbiamo ricordarci e ricordare che i mezzi di comunicazione sono Mezzi, non fini e non la realtà. Questo è basilare nella costruzione di una società interculturale dignitosa e rispettosa, di una identità singola consapevole, di una storia che non rimuova gli elementi scomodi.

Che cosa si sente di dire ai tanti migranti (peruviani e non) che leggono questa intervista?
Che l'Italia è sempre stato un Paese di trasformazioni culturali; abbiamo riconosciuto nella Costituzione le minoranze linguistiche dal nord al sud. Se trovano un muro nella convivenza sappiano attingere alla storia dell'Italia per ricordare a questo strano popolo quanto migliore può essere!




                                                                                                                                        F.V.


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